Appendice della prima edizione de Il capitale (1867), poi riscritta nella seconda edizione (1872) come parte 3 del primo capitolo.
Mentre il capitale era in stampa Engels scrisse a Marx:
«Tu hai commesso il grosso errore di non rendere evidente la linea del pensiero di questi sviluppi più astratti, mediante un maggior numero di piccole ripartizioni ed i sottotitoli separati. Avresti dovuto trattare questa parte al modo dell'Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio di Hegel, con brevi paragrafi, rilevando ogni passaggio dialettico con speciali titoli e possibilmente stampando tutti gli excursus e letture note illustrative con caratteri speciali. La cosa poteva apparire un po' da maestro di scuola, ma la comprensione sarebbe stata facilitata sostanzialmente per una categoria molto vasta di lettori. Il popolus, anche quello istruito, non è abituato a questo modo di pensare che gli si deve allora venire incontro con ogni possibile facilitazione» [16 giugno 1867].
Marx rispose:
«Per quanto concerne lo sviluppo della forma di valore, ho seguito e non seguito il tuo consiglio (mantenendo pure a questo riguardo una linea dialettica). Cioè: 1) ho scritto un'appendice in cui espongo la medesima cosa nel modo più semplice e nel modo più da maestro di scuola che mi sia stato possibile; 2) ho ripartito ogni gradino dello sviluppo in paragrafi etc., con propri sottotitoli» [22 giugno 1867]
Così, il 16 agosto 1867 alle due di notte, l'ultimo foglio di stampa fu corretto e il capitale fu pronto ad uscire ai primi di settembre presso l'editore Meissner di Amburgo, in 1000 esemplari.
Tradotto indirettamente dalla versione in inglese presente sul MIA e trascritto da: Leonardo Maria Battisti, giugno 2018
L'analisi della merce rileva che essa è una cosa duplice: valore d'uso e valore. Perciò per aver la forma di merce una cosa deve avere una forma duplice: la forma di un valore d'uso e la forma di valore. La forma di valore d'uso è la forma del corpo stesso della merce (come ferro, tela etc.): la sua manifesta forma sensibile di esistenza, che è la forma naturale della merce. Invece la forma di valore della merce è la sua forma sociale1.
Come è espresso il valore di una merce? Come cioè il valore assume forma fenomenica? Col rapporto fra merci diverse. L'esame corretto della forma racchiusa in tale rapporto esige di partir dalla sua forma più semplice, meno sviluppata. Il rapporto più semplice di una merce è di certo il suo rapporto con un'altra singola merce di qualsiasi tipo. Donde: il rapporto fra due merci fornisce per una merce la più semplice espressione di valore.
In tal forma semplice di valore sta il segreto di ogni forma di valore. Donde nell'analisi di tale forma semplice è insita la vera difficoltà.
Nell'espressione semplice di valore i due tipi di merce (tela e abito) sono due parti diverse: la merce tela esprime il suo valore nell'abito, in un corpo di merce di tipo diverso dal proprio; mentre la merce abito serve da materiale per tale espressione di valore. La prima merce è la parte attiva; la seconda merce è una parte passiva. Della merce che esprime il suo valore in altra merce dicasi: «il valore della prima merce è dato come valore relativo», cioè «la prima merce è data nella forma relativa di valore». Dell'altra merce che serve da materiale per l'espressione di valore (nel nostro caso l'abito) dicasi: «la seconda merce funge come equivalente della prima merce», cioè «la seconda merce è data nella forma di equivalente».
Pure senza un'ulteriore analisi sono tosto evidenti i seguenti punti:
Forma relativa di valore e forma di equivalente sono momenti della stessa espressione di valore, fra loro inseparabili essendo l'una forma la condizione dell'altra.
D'altronde tali due forme sono estremi che si escludono a vicenda, cioè poli opposti della stessa espressione di valore. Si spartiscono sempre nelle diverse merci correlate dall'espressione di valore. Es. Il valore della tela non è esprimibile in tela. «20 braccia di tela = 20 braccia di tela» non esprime valore, bensì solo una certa quantità dell'oggetto d'uso tela. Il valore della tela è esprimibile solo in altra merce, cioè solo relativamente. Così la forma relativa di valore della tela presuppone che una diversa merce le sia opposta nella forma di equivalente. D'altronde l'altra merce (qui l'abito) che figura come equivalente della tela (cioè trovandosi nella forma di equivalente) non può trovarsi al contempo in forma relativa di valore. La seconda merce non esprime il suo valore bensì dà solo il materiale all'espressione di valore di un'altra merce.
Invero l'espressione: «20 braccia di tela = 1 abito» o «20 braccia di tela hanno il valore di 1 abito» contiene pure il rapporto inverso: «un abito = 20 braccia di tela» o «1 abito ha il valore di 20 braccia di tela». Ma così per esprimer relativamente il valore dell'abito devo invertir l'equazione; fatto ciò, la tela diventa equivalente al posto dell'abito. Così la stessa merce non può star al contempo nelle due forme nella stessa espressione di valore. Anzi tali due forme si escludono polarmente.
Pensiamo a uno scambio fra il produttore di tela A e il produttore di abiti B. Prima di accordarsi, A dice: «20 braccia di tela hanno il valore di 2 abiti» (20 braccia di tela = 2 abiti), invece B dice: «1 abito ha il valore di 22 braccia di tela» (1 abito = 22 braccia di tela). Infine, dopo lungo mercanteggiare, si accordano. A dice: «20 braccia di tela hanno il valore di 1 abito» e B dice: «1 abito ha il valore di 20 braccia di tela». Ivi ambe le merci (tela e abito) si trovano al contempo nella forma relativa di valore e nella forma di equivalente. Ma bada: ciò capita a due persone diverse e in due diverse espressioni di valore, che prendono vita solo al contempo2. Per A (per cui l'iniziativa parte dalla sua merce) la sua tela è data nella forma relativa di valore, e la merce dell'altro (l'abito) è stato nella forma di equivalente. Per B vale l'inverso. Così mai la merce è data al contempo nelle due forme nella stessa espressione di valore.
Valore relativo e equivalente sono ambedue solo forme di valore delle merci. Che una merce sia in una forma o in quella polarmente opposta, dipende solo dal suo posto nell'espressione di valore. Ciò risulta assai chiaro nella forma di valore semplice. Nel CONTENUTO non sono affatto diverse le due espressioni (1) «20 braccia di tela = 1 abito» o «20 braccia di tela hanno il valore di 1 abito» e (2) «1 abito = 20 braccia di tela» o «1 abito ha il valore di 20 braccia di tela». Ma nella FORMA sono diverse, anzi opposte. In (1) il valore della tela è espresso relativamente, cioè è nella forma relativa di valore. Al contempo il valore dell'abito è espresso come equivalente, cioè è nella forma di equivalente. Se rovescio (1) ottengo (2). Le merci mutano di posto e tosto l'abito è nella forma relativa di valore mentre la tela è nella forma di equivalente. Mutando i rispettivi posti nella stessa espressione di valore, le merci hanno mutato pure la forma di valore.
L'iniziativa parte dalla tela poiché è la tela che deve esprimer il proprio valore. Essa entra in rapporto con l'abito (cioè con una qualsiasi merce diversa da sé stessa). Tale rapporto è un rapporto di EGUAGLIANZA. Fondamento dell'equazione «20 braccia di tela = 1 abito» è infatti «tela = abito», il che, espresso a parole, significa semplicemente: «il tipo di merce abito è diverso dal tipo di merce tela ma di natura eguale, di sostanza eguale».
Ciò suole sfuggir, poiché l'attenzione è presa dal rapporto quantitativo, cioè solo dalla proporzione in cui certe quantità di due tipi di merci sono fra loro eguagliate. Si scorda che le grandezze di cose diverse sono eguagliabili quantitativamente solo dacché siano ridotte alla stessa unità. Solo come espressioni della stessa unità sono grandezze dello stesso denominatore onde COMMENSURABILI. Donde nell'espressione suddetta, la tela si rapporta all'abito come a qualcosa di uguale a sé. Cioè, l'abito è riferito alla tela in quanto cosa della STESSA SOSTANZA, di eguale natura. Così il vestito è EGUAGLIATO alla tela qualitativamente3.
Come valori, l'abito e la tela sono la stessa cosa. Che la tela stia all'abito come a qualcosa di uguale a sé, cioè che l'abito sia eguagliato alla tela come cosa della stessa natura, significa che in tale rapporto l'abito vale come valore. L'abito è eguagliato alla tela in forma di valore.
Il rapporto di eguaglianza è così un rapporto di valore ma il rapporto di valore è insomma espressione del valore o dell'esser valore [Wertsein] della merce esprimente il proprio valore4. La tela è diversa dall'abito come valore d'uso o corpo di merce; invece il suo essere valore appare e si esprime in un rapporto tale che un altro tipo di merce (l'abito) le sia eguagliato, cioè valga come suo eguale.
L'abito è valore solo in quanto espressione concreta di forza-lavoro umana spesa nella sua produzione, ovvero cristallizzazione del lavoro umano astratto: lavoro astratto, poiché si astrae dal carattere determinato, utile e concreto del lavoro contenuto in esso; lavoro umano, poiché qui il lavoro conta solo in quanto dispendio di forza-lavoro umana in generale. Così la tela non può porsi in rapporto all'abito come a cosa di valore (cioè non può essere riferita all'abito come valore) senza essere riferita ad esso come un corpo la cui unica materia consista nel lavoro umano. Ma in questo valore la tela è cristallizzazione dello stesso lavoro umano. Perciò in tale rapporto il corpo abito rappresenta la sostanza di valore comune ad esso e alla tela, cioè lavoro umano5. Così in tale rapporto l'abito vale solo come forma di valore, indi pure come forma di valore della tela, come forma fenomenica sensibile del valore della tela. Così, mercé il rapporto di valore, il valore di una merce è espresso nel valore d'uso di un'altra merce, cioè in un altro corpo di merce di tipo diverso dal primo6.
Comunque le 20 braccia di tela non sono solo valore in generale (cioè cristallizzazione di lavoro umano) bensì sono valore di una determinata grandezza, cioè in esse è oggettivata una certa quantità di lavoro umano.
Nel rapporto di valore della tela con l'abito, il tipo di merce abito è EGUAGLIATA PER QUALITÀ alla tela, nonché come corpo di valore in generale (cioè come incarnazione di lavoro umano), come una determinata quantità di questo corpo di valore (un abito e non una dozzina di abiti, etc.) proprio perché: in un abito c'è altrettanta sostanza di valore o altrettanto lavoro umano quanto ne troviamo in 20 braccia di tela.
Per mezzo dell'espressione relativa di valore, dunque in primo luogo, il valore della merce riceve una forma diversa dal proprio valore d'uso. La forma d'uso di tale merce è ad esempio tela. Invece la sua forma di valore sta nel rapporto di uguaglianza con l'abito. In tale rapporto di uguaglianza un altro corpo di merce, sensibilmente diverso dal proprio, diviene specchio del suo proprio essere valore, diviene la sua forma di valore. Così la merce acquista una forma di valore diversa, autonoma e indipendente dalla sua forma naturale. Ma in secondo luogo, come valore di grandezza determinata, in quanto grandezza di valore determinata, la merce è misurata quantitativamente mediante il determinato rapporto quantitativo o mediante la proporzione in cui le viene [SOSTANZIALMENTE] eguagliato un altro corpo di merce.
Come valori tutte le merci sono equivalenti: espressioni della stessa unità di lavoro umano reciprocamente sostituibili o scambiabili. Perciò in generale una merce è scambiabile con un'altra merce poiché ha una forma in cui appare come valore. Un corpo di merce è immediatamente scambiabile con un'altra merce poiché la sua forma immediata (cioè la sua forma corporea o naturale) rappresenta valore nei confronti di un'altra merce, cioè vale come forma di valore. L'abito possiede tale qualità nel rapporto di valore con la tela. Altrimenti il valore della tela non potrebbe esprimersi nella cosa abito.
Che una merce abbia in generale una forma di equivalente significa solamente che: mediante il suo posto nell'espressione di valore, la sua forma naturale vale come forma di valore per un'altra merce, ossia essa possiede la forma di immediata scambiabilità con un'altra merce. Così non serve che la merce trasmuti in una forma diversa dalla sua forma naturale e immediata per apparire come valore ad un'altra merce, per valere come valore e per agire su di essa come valore.
Che una cosa dalla forma di abito sia immediatamente scambiabile con la tela, o che una cosa dalla forma di oro sia immediatamente scambiabile con tutte le altre merci, non significa che tale forma di equivalente di una cosa contenga alcuna determinazione quantitativa di valore. L'errato punto di vista opposto deriva dai seguenti motivi.
Primo motivo: la merce abito che nell'esempio funge da materiale per l'espressione di valore della tela, entro tale espressione è anche sempre determinata quantitativamente (come 1 abito anziché 12 abiti etc.) Ma perché? Perché le 20 braccia di tela nella loro espressione relativa di valore (nonché espresse come valore generale) sono misurate come quantità determinata di valore. Che 1 abito (non 12 abiti) incarni altrettanto lavoro quanto 20 braccia di tela onde sia eguagliato a 20 braccia di tela è irrelato dalla proprietà caratteristica del tipo di merce abito (dalla proprietà d'esser immediatamente scambiabile col tipo di merce tela).
Secondo motivo: se 20 braccia di tela, come valore di grandezza determinata, sono espresse in 1 abito, di riflesso pure la grandezza di valore di 1 abito sarà espressa in 20 braccia di tela. Così invertendo l'espressione tale grandezza è misurata quantitativamente ma solo indirettamente perché rappresenta relativamente il proprio valore nella tela, non perché l'abito rappresenta un equivalente.
Terzo motivo: possiamo esprimer la formula «20 braccia di tela = 1 abito», o «20 braccia di tela hanno il valore di 1 abito» pure così: «20 braccia di tela e 1 abito sono equivalenti», ossia «ambe le merci sono valori di uguale grandezza». In tal caso non esprimiamo il valore d'una delle due merci nel valore d'uso dell'altra. Cioè nima delle due merci è messa nella forma d'equivalente. Ivi equivalente significa solo di uguale grandezza tostoché ambe le cose sono state prima ridotte nella nostra mente all'astrazione valore.
La forma naturale della merce diviene forma di valore. Ma, BADA, tale quid pro quo capita per una merce B (abito o grano o ferro ecc.) solo DENTRO il rapporto di valore in cui una qualsiasi altra merce A (tela ecc.) entra con essa, e solo all'interno di tale rapporto. Preso in sé, isolatamente, l'abito è solo una cosa utile, valore d'uso, proprio come la tela; indi la sua forma di abito è solo forma di valore d'uso, cioè forma naturale d'una certa merce. Ma se nima merce può riferirsi a sé stessa come equivalente (cioè non può far della propria pelle naturale l'espressione del proprio valore) allora ogni merce va riferita ad altra merce come equivalente (cioè deve far della pelle naturale di un altro corpo di merce la propria forma di valore).
Ciò sarà evidente dall'esempio d'una misura che possa riferirsi ai corpi di merce in quanto corpi di merce cioè come valori d'uso. Un pan di zucchero in quanto corpo è pesante indi ha peso, ma tale peso è impercettibile. Prendiamo ora vari pezzi di ferro il cui peso sia stato prestabilito. Presa in sé, la forma corporea del ferro non è forma fenomenica della pesantezza più di quanto lo sia quella del pan di zucchero. Eppure, per esprimere il pan di zucchero come pesantezza o peso, lo poniamo in un rapporto di peso col ferro. In tale rapporto il ferro vale come un corpo che rappresenta unicamente pesantezza o peso. Cioè: le quantità di ferro fungono da misura del peso dello zucchero e sono pura forma di peso rispetto al corpo zuccherino, sono forma fenomenica di pesantezza.
Il ferro ha tale ruolo unicamente nel rapporto in cui lo zucchero (o qualsiasi altro corpo di merce di cui serva trovar il peso) entra con esso. Se le due cose non fossero pesanti, non potrebbero porsi in tale rapporto indi l'una non potrebbe servir come espressione della pesantezza dell'altra. Ponendo ambe sul piatto di una bilancia, notiamo di fatto che esse sono come corpi pesanti la stessa cosa e che quindi, DENTRO una data proporzione, hanno lo stesso peso. COME qui il corpo di ferro come misura di peso rappresenta rispetto al pan di zucchero solamente peso, COSÌ nella nostra espressione di valore il corpo abito RAPPRESENTA rispetto alla tela solamente valore8.
Nell'espressione di valore della tela, l'abito vale come corpo di valore, cioè la sua forma corporea o naturale vale come forma di valore, cioè come incarnazione di lavoro umano indistinto, di lavoro umano generale. Ma il lavoro con cui tale cosa utile (l'abito) è prodotta e riceve la sua forma determinata non è astratto lavoro umano, lavoro umano generale, bensì è un tipo di lavoro utile, concreto, determinato (il lavoro del sarto). La forma relativa semplice di valore esige che il valore di una merce (es. la tela) sia espresso solo in un'unica diversa merce. Quale sia tale diversa merce è affatto indifferente per la forma di valore semplice. Anziché nella merce abito, il valore della tela si poteva esprimere nella merce grano ovvero nella merce ferro etc. Ma che sia abito, grano o ferro, l'equivalente della tela vale sempre per essa come corpo di valore indi come incarnazione di lavoro umano generale, puro. Che sia abito, grano o ferro, la forma corporea determinata dell'equivalente resta incarnazione di un lavoro determinato, utile, concreto (anziché di lavoro umano astratto), che sia il lavoro del sarto, o del contadino o del minatore. Così tale lavoro determinato, utile, concreto, che produce il corpo di merce dell'equivalente nell'espressione di valore, è uopo che valga come forma determinata di realizzazione di lavoro umano generale indistinto, cioè come forma fenomenica di astratto lavoro umano. Es. L'abito può valere come corpo di valore (indi come incarnazione di lavoro umano generale) solo in quanto il lavoro del sarto vale come forma determinata in cui sia spesa forza-lavoro umana o in cui si concretizzi astratto lavoro umano.
All'interno del rapporto di valore e dell'espressione di valore in esso contenuta, non è l'universale astratto a valer come qualità del concreto, del sensibile reale; al contrario, è il concreto-sensibile a valer come semplice forma fenomenica o come forma determinata di realizzazione dell'universale astratto. Es. Il lavoro-del-sarto-che-si-trova-nell'equivalente-abito (DENTRO l'espressione di valore della tela) non ha anche la proprietà generale di essere lavoro umano. Al contrario: essere lavoro umano è la sua natura; invece essere lavoro del sarto è solo forma fenomenica o forma determinata di realizzazione di questa sua natura. Tale quid pro quo è inevitabile, poiché il lavoro-rappresentato-nel-prodotto-del-lavoro è solo creatore di valore, in quanto esso è lavoro umano indistinto; onde il lavoro oggettivato nel valore di un prodotto non si differenzia affatto dal lavoro oggettivato nel valore d'un prodotto di tipo diverso.
Tale rovesciamento totale (per cui il concreto-sensibile vale solo come forma fenomenica dell'universale astratto; anziché valer l'universale astratto come qualità del concreto) caratterizza l'espressione di valore. Ciò ne ostacola la comprensione. Se dico: «diritto romano e diritto tedesco sono ambi dei diritti», ciò è ovvio. Ma se dico: «IL diritto, questo astratto, si realizza nel diritto romano e nel diritto tedesco, in questi diritti concreti», allora il contesto diviene mistico9.
I prodotti del lavoro non diverrebbero merci se non fossero prodotti di lavori privati autonomi cioè esercitati indipendentemente l'uno dall'altro. Il nesso sociale di tali lavori privati esiste materialmente, in quanto essi sono parti di una naturale divisione sociale del lavoro, e perciò coi loro prodotti soddisfano bisogni vari, la cui totalità costituisce il sistema naturale dei bisogni sociali. Ma tale materiale nesso sociale dei lavori privati esercitati indipendentemente l'uno dall'altro è solo mediato, cioè si realizza solo collo scambio dei loro prodotti.
Indi il prodotto del lavoro privato ha forma sociale solo avendo forma di valore: cioè forma di scambiabilità con gli altri prodotti del lavoro. Il prodotto ha forma immediatamente sociale ché la sua forma corporea o naturale è anche la forma della sua scambiabilità con altra merce, cioè vale come forma di valore d'altra merce. Ciò capita (già detto) solo per un prodotto del lavoro che sia nella forma di equivalente nel rapporto di valore con un'altra merce o abbia il ruolo di equivalente.
L'equivalente ha forma immediatamente sociale poiché ha la forma d'immediata scambiabilità con altra merce, e ha tale forma di immediata scambiabilità in quanto per un'altra merce esso vale come corpo di valore, perciò come l'uguale. Perciò pure il lavoro utile determinato in esso contenuto vale come lavoro in forma immediatamente sociale, cioè come lavoro che ha la forma dell'uguaglianza col lavoro contenuto in altra merce. Un lavoro determinato concreto (es. il lavoro del sarto) può aver solo la forma dell'eguaglianza col lavoro eterogeneo contenuto nella merce di tipo diverso (es. la tela) solo in quanto la sua forma determinata vale come espressione di qualcosa che costituisce davvero l'eguaglianza di lavori di tipo diverso o ciò che è uguale in essi. Ma tali lavori sono uguali solo in quanto sono lavoro umano generale, lavoro umano astratto, cioè: dispendio di forza-lavoro umana.
Se (già detto) tale concreto lavoro determinato contenuto nell'equivalente vale come forma determinata di realizzazione o forma fenomenica del lavoro astratto umano, allora tale lavoro possiede la forma dell'uguaglianza con un altro lavoro; onde, benché sia lavoro privato (lavoro che produce merci come tutti gli altri) è comunque lavoro in forma immediatamente sociale. Proprio per questo tale lavoro privato appare in un prodotto che è immediatamente scambiabile con altra merce.
Le ultime due particolarità della forma di equivalente appena trattata diventano ancor più intelligibili se si risale al grande studioso che per primo analizzò (assai meglio dei moderni) la forma di valore (così come le forme di pensiero, forme di società e forme di natura): Aristotele.
Aristotele dice anzitutto chiaramente che la forma di denaro della merce è solo la figura ulteriormente sviluppata della forma semplice di valore (cioè dell'espressione del valore d'una merce in una qualsiasi altra merce) poiché egli afferma:
«“5 letti = una casa”
[Κλίναι πέντε ἀντὶ οὶϰίας]
non differisce da
“5 letti = tanto di denaro”
[Κλίναι πέντε ἀντὶ... ὅσου αί πέντε ϰλίναι]» [1133b 29].
Aristotele poi riconosce che il rapporto di valore cui si riferisce l'espressione di valore implica a sua volta che la casa sia posta come qualitativamente uguale al letto; e riconosce che tali cose, sensibilmente diverse, non sarebbero riferibili fra di loro come grandezze commensurabili se nella loro essenza non partecipassero di tale uguaglianza. Egli afferma: «Non può esistere lo scambio senza parità, né parità senza commensurabilità (οὒτ'ὶσότης μὴ οὒσης συμμετρίας)» [1133b 17]. Ma ivi si ferma e rinuncia all'ulteriore analisi della forma di valore. «Invero è impossibile (τῃ'μέν οἶν ἀληθείᾳ ἀδύνατον) render commensurabili cose sì diverse» [1133b 19], cioè che siano qualitativamente uguali. Tale eguaglianza può esser solo un che di estraneo alla reale natura delle cose «possibile solo per il bisogno pratico» [1133b 20].
Così Aristotele stesso ci dice perché la sua analisi si ferma: per la mancanza del concetto di valore. Cos'è l'uguale (cioè la sostanza comune) che, nell'espressione di valore del letto, la casa rappresenta per il letto? Qualcosa che «invero non può esistere», dice Aristotele. Perché? La casa rappresenta un che di uguale rispetto al letto poiché rappresenta ciò che è realmente uguale in ambi (nel letto e nella casa). E questo uguale è lavoro umano.
Ma Aristotele non poteva dedurre dalla stessa forma di valore che nella forma di valore delle merci tutti i lavori sono espressi come lavoro umano uguale onde ugualmente valevoli; perché la società greca si reggeva sul lavoro schiavile, e così era per natura basata sulla disuguaglianza degli uomini e delle loro forze-lavoro. Solo allorché il concetto della uguaglianza umana sia già saldato come un pregiudizio popolare si può decifrar il segreto dell'espressione di valore (l'uguaglianza e l'uguale validità di ogni lavoro, poiché e in quanto tutti i lavori sono lavoro umano generale). Ma ciò capita solo in una società in cui la forma di merce sia la forma generale del prodotto del lavoro e in cui il reciproco rapporto fra gli uomini come possessori di merci sia il rapporto sociale dominante. Genialità di Aristotele è scoprir un rapporto di uguaglianza nell'espressione di valore delle merci. Solo i limiti storici della società in cui visse gli impedirono di scoprire in cosa consista «invero» tale rapporto di uguaglianza11.
I prodotti del lavoro (quelle cose utili come abito, tela, grano, ferro etc.) sono valori, determinate grandezze di valore e merci in genere: qualità che derivano solo dai nostri scambi (non dalla natura come la qualità d'esser pesante, di tener caldo o di nutrire). Infatti ALL'INTERNO dei nostri scambi tali cose si comportano fra loro come merci. Esse sono valori, sono misurabili come grandezze di valore e la loro comune qualità di valore le pone in reciproco rapporto di valore.
Es. «20 braccia di tela = 1 abito» o «20 braccia di tela hanno il valore di 1 abito» esprime solo che:
1) lavori diversi necessari per produrre tali cose valgono ugualmente come lavoro umano;
2) la quantità di lavoro spesa per produrle è misurata secondo precise leggi sociali;
3) sarto e tessitore entrano in un determinato rapporto sociale di produzione.
È in un determinato rapporto sociale fra produttori che i produttori eguagliano i loro diversi lavori utili come uguale lavoro umano. È solo in un determinato rapporto sociale che i produttori misurano la grandezza dei loro diversi lavori colla durata del dispendio di forza-lavoro umana. Ma nei nostri scambi tali caratteri sociali del proprio lavoro APPAIONO come caratteri sociali NATURALI, cioè determinazioni oggettive dei prodotti stessi del lavoro; l'eguaglianza del lavoro umano appare come qualità di valore dei prodotti del lavoro; la misura del lavoro tramite il tempo di lavoro socialmente necessario appare come grandezza di valore dei prodotti del lavoro; infine il rapporto sociale fra i produttori appare tramite i loro lavori come rapporto di valore, cioè RAPPORTO sociale FRA TALI COSE, fra i prodotti del lavoro. Insomma ai produttori i prodotti del lavoro appaiono come merci, cose sensibilmente sovrasensibili , ossia cose sociali. Così come l'impressione luminosa di una cosa sul nervo ottico non si presenta come stimolo soggettivo del nervo ottico stesso, bensì come forma oggettiva di una cosa esterna all'occhio. Ma nel vedere c'è davvero una cosa che proietta la luce (l'oggetto esterno) su un'altra cosa (l'occhio). È un rapporto fisico tra cose fisiche. Invece la forma di merce e il rapporto di valore dei prodotti del lavoro sono irrelate dalla loro natura fisica e colle conseguenti relazioni fra cosa e cosa. Ivi ciò che per gli uomini prende la forma fantasmagorica d'un rapporto fra cose è solo il determinato rapporto sociale che esiste fra gli uomini stessi. Così per trovar un'analogia serve introdurci nelle nebulose regioni del mondo religioso: ivi i prodotti della mente umana paiono esser figure indipendenti dotate di una vita propria, che sono in rapporto fra loro e con gli uomini. Allo stesso modo paiono i prodotti della mano umana nel mondo delle merci. Ciò è quel che chiamo feticismo. Quel feticismo che si attacca ai prodotti del lavoro tostoché siano prodotti come merci; che è inseparabile dalla produzione delle merci.
Tal carattere feticistico trapela nella forma di equivalente più che nella forma relativa di valore. La forma relativa di valore di una merce è mediata dal suo rapporto con un'altra merce. Nell'espressione di valore, il valore della merce è espresso come una cosa affatto diversa dalla sua esistenza sensibile. Proprio da ciò deriva che l'essere valore d'una cosa può essere un rapporto esterno alla cosa stessa, che il suo rapporto di valore con un'altra cosa può essere solo decettiva forma fenomenica di un reale rapporto sociale celato dietro di essa. Con la forma di equivalente succede l'inverso. Essa consiste proprio nel fatto che la forma corporea o naturale di una merce vale immediatamente come forma sociale, come forma di valore per un'altra merce. Così nei nostri scambi commerciali il possedere forma di equivalente (l'essere immediatamente scambiabile con le altre cose così com'è nella sua forma sensibile) appare come qualità sociale naturale di una cosa, come sua qualità connaturata. Ma poiché nell'espressione di valore della merce A la forma d'equivalente spetta naturalmente alla merce B, la stessa forma par appartener a quest'ultima per natura (cioè pure al di FUORI di tale rapporto). Es. Il carattere enigmatico dell'oro che oltre alle altre sue qualità naturali (colore lucente, peso specifico, inossidabilità all'aria...) pare aver per natura la forma di equivalente, cioè la qualità sociale d'esser immediatamente scambiabile con tutte le altre merci.
L'espressione di valore ha due poli: la forma relativa di valore e la forma di equivalente. La merce che funge da equivalente vale per l'altra merce come figura di valore (corpo in forma immediatamente scambiabile – valore di scambio). Ma pure la merce il cui valore si esprime relativamente possiede la forma di valore di scambio poiché: 1) il suo essere valore è provato dalla sua scambiabilità con un altro corpo di merce; 2) la sua grandezza di valore è espressa nella proporzione in cui è scambiabile con l'altra merce. Il valore di scambio è perciò la forma fenomenica indipendente del valore della merce.
Nel rapporto di valore fra la tela e l'abito la forma naturale della tela vale solo come figura del valore d'uso, la forma naturale dell'abito solo come forma di valore o figura di valore di scambio. L'interna antitesi fra valore d'uso e valore, racchiusa nella merce, è quindi rappresentata da un'antitesi esterna, cioè dal rapporto fra due merci, di cui l'una vale immediatamente solo come valore d'uso, l'altra vale immediatamente solo come valore di scambio, cioè da un rapporto in cui ambedue le determinazioni opposte di valore d'uso e valore di scambio sono divise polarmente fra le merci. Se dico: «in quanto merce la tela è valore d'uso e valore di scambio», tale è il mio giudizio sulla natura della merce ricavato con un'analisi. Invece nell'espressione: «20 braccia di tela = 1 abito» o «20 braccia di tela hanno il valore di 1 abito», la tela stessa dice: 1) d'esser valore d'uso (tela); 2) d'esser valore di scambio diverso da questa (un eguale del vestito); 3) d'esser UNITÀ di queste due cose diverse (quindi è merce).
La forma d'un valore d'uso espone il prodotto del lavoro nella sua forma naturale. Esso abbisogna solo della forma di valore per aver la forma di merce, cioè appalesarsi come unità degli opposti valore d'uso & valore di scambio. Lo svolgimento della forma di valore corrisponde perciò allo svolgimento della forma di merce13.
Si ponga, anziché «20 braccia di tela = 1 abito» o «20 braccia di tela hanno il valore di 1 abito», la forma: «20 braccia di tela = 2 sterline» o «20 braccia di tela valgono 2 sterline». Già il primo sguardo illustra che la forma di denaro è solo la figura ulteriormente sviluppata della forma di valore semplice della merce, cioè è solo sviluppo della forma semplice di merce del prodotto del lavoro. Se la forma di denaro è solo la forma sviluppata di merce, allora la forma di denaro scaturisce ovviamente dalla forma semplice di merce. Capendo la forma semplice di merce, resta da capir la serie di metamorfosi che la forma semplice di merce «20 braccia di tela = 1 abito» deve percorrere per assumer la forma di denaro «20 braccia di tela = 2 sterline».
L'espressione di valore nell'abito dà alla tela una forma di valore con cui la tela-come-valore è distinta dal suo stesso valore d'uso. Tale forma la pone in rapporto solo con il vestito, cioè con una qualsiasi diversa merce. Ma come valore la tela è la stessa cosa di tutte le altre merci. Perciò la sua forma di valore deve esser pure una forma che la metta in un rapporto di eguaglianza qualitativa e di proporzionalità quantitativa con ogni altra merce. Alla forma semplice relativa di valore di una merce corrisponde la singola forma di equivalente di un'altra merce. Cioè: la merce in cui è espresso il valore qui funge solo da equivalente singolo. Così, nell'espressione relativa di valore della tela, il vestito possiede solo forma di equivalente, cioè forma di immediata scambiabilità in rapporto solo a questo singolo tipo di merci che è la tela.
La forma di valore semplice implica che il valore di una merce sia espresso solo in una merce di diverso tipo qualsiasi. Pure per l'espressione relativa semplice di valore della tela non cale quale seconda merce ne esprima il valore (ferro o grano etc., anziché abito).
Secondo quale rapporto di valore essa stabilisca con taluno o talaltro tipo di merci, nascono diverse espressioni relative semplici di valore della tela. Il numero di tali possibili espressioni semplici di valore è limitato solo dal numero dei tipi di merci diversi da essa. Infatti la sua compiuta espressione relativa di valore non consiste in un'isolata espressione relativa semplice di valore, ma nella somma delle sue espressioni semplici di valore. Così si ottiene: la forma di valore totale o dispiegata.
Tale serie di espressioni semplici relative di valore è per natura sempre allungabile, interminabile, poiché appaiono sempre nuovi tipi di merce, e ogni nuovo tipo di merce fa da materiale d'una nuova espressione di valore.
Il valore di una merce (es. della tela) è ora rappresentato in infiniti altri elementi del mondo delle merci. Ogni altro corpo di merci diviene specchio del valore della tela. Questo stesso valore appare così per la prima volta, finalmente, come coagulo di lavoro umano indistinto. Infatti il lavoro che costituisce il valore della tela è ora presentato esplicitamente come lavoro equivalente a ogni altro lavoro umano, qualsiasi forma naturale esso possa avere, e sia che si oggettivi nell'abito o nel grano o nel ferro o nell'oro etc. Così la tela sta, tramite la sua forma di valore, in un rapporto sociale (nonché con un altro singolo tipo di merce) col mondo delle merci. In quanto merce la tela è cittadina di tale mondo delle merci. È al contempo sottinteso nella serie infinita delle sue espressioni che il valore di una merce è irrelato dalla forma particolare del valore d'uso in cui esso si appalesa.
Nell'espressione di valore della tela ogni merce (vestito, tè, grano, ferro ecc.) conta come equivalente indi come corpo di valore. La specifica forma naturale di ognuna di tali merci è una forma particolare di equivalente accanto a tante altre. Così, pure i vari tipi di lavoro determinato, concreto, utile, racchiusi nei diversi corpi di merce valgono come altrettante forme particolari di realizzazione o di manifestazione di lavoro umano generale.
Primo. L'espressione relativa di valore della merce è incompiuta, poiché la serie che la rappresenta non si conclude mai. Secondo. La serie forma un variopinto mosaico di espressioni di valore distinte e di diverso tipo. Terzo. Se infine il valore relativo di ogni merce è espresso (il che è d'obbligo) in tale forma dispiegata, allora la forma relativa di valore di ogni merce è una serie infinita di espressioni di valore differenti dalla forma relativa di valore d'ogni altra merce.
I difetti della forma di valore relativa dispiegata ricorrono nella corrispondente forma di equivalente. Poiché la forma naturale d'ogni singolo tipo di merci ivi è una particolare forma di equivalente accanto a infinite altre forme particolari di equivalente, allora esistono solo forme limitate di equivalenti escludentesi a vicenda. Così pure il tipo di lavoro determinato, concreto, utile, racchiuso in ogni particolare equivalente di merci è solo particolare forma fenomenica del lavoro umano (anziché esauriente). Beninteso: tale lavoro ha la sua forma fenomenica completa o totale nell'ambito complessivo di quelle particolari forme fenomeniche; purtuttavia, proprio per questo, non ha alcuna forma fenomenica unitaria.
La forma relativa di valore totale o dispiegata consta però solo d'una somma d'espressioni relative di valore semplice, o equazioni della prima forma, come:
«20 braccia di tela = 1 abito»,
«20 braccia di tela =10 libbre di tè», etc.
Ma ognuna di tali equazioni contiene reciprocamente pure l'equazione identica:
«1 abito = 20 braccia di tela»,
«10 libbre di tè = 20 braccia di tela», etc.
Infatti, se il possessore della tela scambia la sua merce con molte altre merci, indi fesprime il valore della sua merce in una serie d'altre merci, allora pure gli altri possessori di merci devono d'uopo scambiar le loro merci con la tela indi devono esprimer i valori delle loro diverse merci nella stessa terza merce, in tela. Invertiamo allora la serie «20 braccia di tela = 1 abito, o = 10 libbre di tè, o = ecc.»; cioè diamo la relazione reciproca già implicita nella serie, e avremo la forma generale di valore.
├ ■(1 vestito&=@10 libbre di té&=@40 libbre di caffè&=@1 quarter di grano&=@2 once d'oro&=@1/2 tonnellata di ferro&=@x merce A [email protected]&=)}20 braccia di tela
La forma relativa di valore possiede ora una figura affatto alterata. Ora tutte le merci esprimono i loro valori: 1) semplicemente, cioè in un singolo corpo di altra merce; 2) unitariamente, cioè in uno stesso corpo di altra merce. La loro forma di valore è semplice e comune, cioè generale. La tela vale ora per tutti i vari corpi di merci come loro comune e generale figura di valore. La forma di valore d'una merce, cioè l'espressione del suo valore in tela, (nonché distinguerla come valore dalla propria esistenza come oggetto d'uso, cioè dalla sua propria forma naturale) ora come valore la riferisce al contempo a tutte le altre merci, a tutte le merci come uguali ad essa. Indi, in tal forma di valore, la merce possiede una forma generalmente sociale.
Solo per il suo carattere generale la forma di valore corrisponde al concetto di valore. La forma di valore doveva essere una forma in cui le merci apparissero l'una all'altra come semplice coagulo di lavoro umano, indistinto, omogeneo, cioè come materializzazione della stessa sostanza-lavoro [Arbeitssubstanz]. Ciò è ora raggiunto. Infatti tutte le merci sono espresse come materializzazione del lavoro (del lavoro racchiuso nella tela). Così le merci sono eguagliate qualitativamente14.
Al contempo sono confrontate quantitativamente, ossia si presentano fra di loro come grandezze determinate di valore. Es. «10 libbre di tè = 20 braccia di tela» e «40 libbre di caffè = 20 braccia di tela». Onde «10 libbre di tè = 40 libbre di caffè». Ossia in 1 libbra di caffè c'è solo 1/4 della sostanza-valore, cioè di lavoro, incarnato in 1 libbra di tè.
La forma particolare di equivalente è adesso ulteriormente sviluppata nella forma generale di equivalente. Cioè la merce che si trova in forma di equivalente è ora: equivalente generale. Infatti la forma naturale del corpo di merce tela, valendo come figura di valore di tutte le altre merci, è la forma della sua uguale validità o immediata scambiabilità con tutti gli elementi del mondo delle merci. Così la sua forma naturale è al contempo la sua generale forma sociale.
Per tutte le altre merci, benché siano i prodotti dei lavori più vari, la tela vale come forma fenomenica dei lavori in esse racchiusi, perciò come incarnazione del lavoro umano omogeneo indistinto. Per il rapporto di valore fra il mondo delle merci e la tela, la tessitura (tale particolare tipo di lavoro concreto) ora vale come forma di realizzazione generale e immediatamente esauriente del lavoro umano astratto (cioè del dispendio di forza-lavoro umana).
Proprio per questo, il lavoro privato contenuto nella tela vale come lavoro, che sta immediatamente nella forma generalmente sociale (nella forma della eguaglianza con ogni altro lavoro).
Così: se una merce ha la forma generale di equivalente o funge da equivalente generale, la sua forma naturale o corporea vale come l'incarnazione visibile, la crisalide sociale generale di ogni lavoro umano.
Al grado di sviluppo della forma relativa di valore corrisponde il grado di sviluppo della forma di equivalente. Ma bada: lo sviluppo della forma di equivalente è solo espressione e risultato dello sviluppo della forma relativa di valore. L'iniziativa parte da quest'ultima.
La forma relativa semplice di valore esprime il valore di una merce solo in un unico altro tipo qualsiasi di merce. La merce riceve così forma di valore solo nella distinzione dalla sua forma di valore d'uso o forma naturale. Pure il suo equivalente riceve solo la forma singola di equivalente. La forma relativa dispiegata di valore esprime il valore di una merce in tutte le altre merci. Onde quest'ultime ricevono la forma di diversi equivalenti particolari, ossia la forma particolare di equivalente. Infine il mondo delle merci si dà una forma relativa di valore unitaria e generale, cioè esclude da sé un unico tipo di merce, nel quale tutte le altre merci esprimono in comune il loro valore. Così la merce esclusa diviene equivalente generale, cioè la forma di equivalente diviene la forma generale di equivalente.
L'antitesi polare (cioè quell'intimo nesso accanto a costante esclusione) fra forma relativa di valore & forma di equivalente, significa: 1) che una merce non può trovarsi in una forma senza un'altra merce che si trovi nella forma opposta; 2) allorché una merce si trovi in una forma, non può al contempo trovarsi nell'altra forma nella stessa espressione di valore. Tale antitesi polare dei due momenti dell'espressione di valore si sviluppa e si consolida nello stesso grado in cui si sviluppa e si perfeziona la forma di valore.
Già nella forma I «20 braccia di tela = 1 abito» le due forme si escludono, ma solo formalmente: se la stessa equazione fosse letta per dritto o alla rovescia allora ognuno dei due estremi di merci (tela e abito) si troverebbe simmetricamente ora nella forma relativa di valore, ora nella forma di equivalente. Ivi è ancora difficile fissar l'opposizione polare.
Nella forma II solo un tipo di merce alla volta può dispiegar totalmente il suo valore relativo; solo quel tipo possiede forma relativa di valore dispiegata poiché e in quanto tutte le altre merci sono nei suoi confronti nella forma di equivalente.
Nella forma III, infine, il mondo delle merci possiede solo forma relativa generalmente sociale, perché e in quanto tutte le merci che ne fanno parte (con una sola eccezione) sono escluse dalla forma generale di equivalente, cioè dalla forma di diretta scambiabilità15. Viceversa la merce che si trova nella forma generale di equivalente o che figura come equivalente generale è esclusa dalla forma relativa di valore unitaria e perciò generale del mondo delle merci. Se una qualsiasi merce nella forma generale di equivalente (es. la tela) dovesse al contempo partecipar alla forma relativa generale di valore, allora essa dovrebbe servire da equivalente a sé stessa, ottenendo così: «20 braccia di tela = 20 braccia di tela», una tautologia in cui non sono indicati né valori né grandezze di valori. Per esprimere il valore relativo dell'equivalente generale, dobbiamo invece invertire la forma III. L'equivalente non possiede alcuna forma relativa di valore comune alle altre merci, bensì il suo valore è espresso relativamente nella serie infinita di tutti gli altri corpi di merci. Così ora la forma relativa dispiegata di valore, cioè la forma II, appare come la forma relativa di valore specifica della merce, che rappresenta il ruolo di equivalente generale.
La forma generale di equivalente è una forma del valore in genere. Può così appartener ad ciascuna merce purché sempre escludendo ogni altra merce.
Già la semplice differenza di forma fra la forma II e la forma III espone un che di peculiare rispetto alla differenza fra le forme I e II. Infatti nella forma di valore dispiegata (forma II) una merce esclude tutte le altre per esprimere in esse il proprio valore. Tale esclusione può essere un puro processo soggettivo, ad es. un processo del possessore di tela che valuta il valore della propria merce in molte altre merci. Invece una merce sta nella forma generale di equivalente (forma III) solo perché e in quanto è esclusa da tutte le altre merci come equivalente. L'esclusione è qui un processo oggettivo e indipendente dalla merce esclusa. Nello sviluppo storico della forma della merce, la forma generale di equivalente può perciò spettar alternativamente ora a questa ora a quella merce. Ma mai una merce funge davvero da equivalente generale, salvo la sua esclusione (indi la sua forma di equivalente) sia il risultato d'un processo sociale oggettivo.
La forma generale di valore è la forma sviluppata di valore e perciò la forma sviluppata di merce. I prodotti del lavoro (materialmente affatto diversi) non possono possedere forma compiuta di merce, onde fungere come merci nel processo di scambio, senza esser rappresentati come espressioni concrete dello stesso lavoro umano. Cioè: per ricevere forma compiuta di merce, i prodotti devono ricevere forma relativa di valore, generale, unitaria. Ma tale forma relativa unitaria di valore è ricevibile solo escludendo dalla propria serie un determinato tipo di merce come equivalente generale. E solo dacché tale esclusione si limita definitivamente a uno specifico tipo di merce, la forma relativa di valore unitaria del mondo delle merci ottiene consistenza oggettiva e validità generalmente sociale.
Ora lo specifico tipo di merce con la cui forma naturale si è identificata socialmente la forma di equivalente, diviene merce-denaro, cioè funge come denaro. La sua funzione sociale specifica, indi il suo monopolio sociale, diviene quello di rappresentare la parte dell'equivalente generale entro il mondo delle merci. Tale posto privilegiato fra le merci (che nella forma II sono indicate come equivalenti particolari della tela e nella forma III esprimono insieme il loro valore relativo nella tela) lo ha ottenuto una determinata merce: l'oro. Così, se nella forma III sostituiamo la merce oro al posto della merce tela allora otteniamo la forma di denaro.
Nel passaggio dalla forma I [forma semplice di valore] alla forma II [forma di valore totale] e dalla forma II [forma totale di valore] alla forma III [forma generale di valore] capitano mutamenti essenziali. Invece la forma IV [forma di denaro] si distingue dalla forma III [forma generale di valore] solo perché ora, anziché la tela, è l'oro ad aver la forma dell'equivalente generale. Nella forma IV l'oro resta ciò che era la tela nella forma III: equivalente generale. Il progresso consiste solo nel fatto che la forma generale di immediata scambiabilità (cioè la forma generale di equivalente) ora si è definitivamente identificata per abitudine sociale con la specifica forma naturale del corpo di merce oro. Ora l'oro appare come denaro rispetto alle altre merci, solo perché era già apparso come merce rispetto ad esse. Come tutte le altre merci pure l'oro funse da equivalente: sia come equivalente singolo in isolati atti di scambio, sia come equivalente particolare insieme ad altri equivalenti di merci. Via via funse da equivalente generale in sfere più o meno grandi. Tostoché conquistò il monopolio di tale posizione nell'espressione di valore del mondo delle merci, divenne merce-denaro; e solo dacché è divenuto merce-denaro, la forma IV si distingue dalla forma III, cioè la forma generale di valore è trasformata nella forma di denaro.
L'espressione relativa semplice di valore di una merce (es. della tela) nella merce che già funga da merce-denaro, (es. nell'oro) è forma di prezzo. La forma di prezzo della tela è perciò: «20 braccia di tela = 2 once di oro» oppure, se 2 sterline è il nome monetario di 2 once d'oro: «20 braccia di tela = 2 sterline».
Ebbene: l'autentica forma di denaro non contiene in sé alcuna difficoltà. Intendendo la forma di equivalente generale, serve poco per capire che tale forma di equivalente si fissa a un tipo di merce specifico come l'oro, e per capire che come forma generale di equivalente implica l'esclusione sociale di un determinato tipo di merce da tutte le altre merci. Tale esclusione ottiene consistenza oggettiva sociale e validità generale; indi non tocca alternativamente a varie merci; né ha una mera portata locale, limitata a determinate sfere del mondo delle merci. La difficoltà nel concetto di forma di denaro si limita alla comprensione della forma generale di equivalente, ossia alla forma generale di valore: la forma III. La forma III si risolve a sua volta nella forma II, e l'elemento costitutivo della forma II è la forma I: «20 braccia di tela = 1 abito», cioè «x merce A = y merce B»16. Dal sapere ora cosa sono il valore d'uso e il valore di scambio segue che tale forma I è il modo più semplice e meno sviluppato di rappresentare un prodotto del lavoro qualsiasi (es. la tela) come merce, cioè come unità degli opposti valori d'uso e di scambio. Inoltre si rileva facilmente la serie di metamorfosi che deve percorrere la forma semplice di merce «20 braccia di tela = 1 abito» per ottenere la sua forma di denaro, cioè per ottener la sua forma finita: «20 braccia di tela = 2 sterline».
1. «Ognuno sa (pur non sapendo altro) che le merci possiedono una forma valore a tutte comune che contrasta nettamente colle diverse forme naturali dei loro valori d'uso: la forma denaro. Ma qui c'è da compiere un'impresa neppure tentata dall'economia classica: spiegar la genesi di tale forma denaro e poi sviluppar l'espressione di valore contenuta nel rapporto di valore delle merci dalla sua forma più semplice e inappariscente fino all'abbagliante forma moneta. Con ciò sparirà pure l'enigma del denaro» [Capitale I, 1, 3].↩
2. Il prosieguo spiega tale condizione capita se due persone mettono al contempo in reciproco rapporto le loro merci (valori primariamente d'uso) stabilendo un duplice rapporto di valore. Si tratta ancora d'una forma di valore semplice. Manca l'equivalente lavoro umano, citato solo nel prosieguo rendendo ora oscuro il passo. ↩
3. «I pochi economisti che, come Samuel Bailey, si occuparono dell'analisi della forma valore, non potevano approdare a nulla, anzitutto perché confondono la forma valore ed il valore, soprattutto perché, sotto il rozzo influsso del borghese pratico, badano solo alla determinatezza quantitativa» [Capitale I, 1, 3, A, 2, nota r].↩
4. «Notiamo per inciso che pure la lingua delle merci ha molti altri dialetti oltre quello ebraico, più o meno corretti. Es. La parola tedesca Werstein (essere-valore) indica in modo meno evidente del verbo romanzo valere, valer, valoir che: l'equazione che eguaglia la merce B con la merce A è l'espressione propria di valore della merce A» [Capitale I, 1, 3, A, 2, a].↩
5. «In effetti per produrre l'abito è stata spesa forza-lavoro umana in forma di sartoria. Donde in esso è accumulato lavoro umano. Quae cum ita sint, l'abito è “depositario di valore”, benché tale sua qualità non faccia capolino manco quando il consumo ne esponga i fili. E, nel rapporto di valore con la tela, l'abito conta solo sotto questo aspetto: come lavoro incorporato, corpo di valore. Benché l'abito si presenti abbottonato, la tela ha riconosciuto nell'abito la bell'anima affine del valore. Ma l'abito non può rappresentare valore nei confronti della tela senza che al contempo il valore della tela riceva la forma di un abito. Così l'individuo A non può comportarsi come una maestà con l'individuo B senza che per A la maestà assuma al contempo la forma corporea di B, mutando i tratti del viso, i capelli e molte altre cose ancora, a seconda del sovrano di turno» [Capitale I, 1, 3, A, 2, a]. ↩
6. Bada come il testo rielaborato nella IIª edizione del Capitale sia più enfatico: «Il suo esser valore si appalesa nella sua eguaglianza con l'abito come la natura pecorina del cristiano nella sua eguaglianza con l'agnello di Dio».↩
7. «La prima peculiarità che si osserva nell'esaminare la forma equivalente è questa: il valore d'uso diviene forma fenomenica del suo opposto, del valore» [Capitale I, 1, 3, A, 3].↩
8. «Ma l'analogia finisce qui. Nell'espressione di peso del pan di zucchero, il ferro rappresenta una qualità naturale comune ad ambi i corpi (la loro gravità); mentre nell'espressione di valore della tela l'abito rappresenta una qualità sovrannaturale di ambe le cose (il loro valore, una cosa puramente sociale). Poiché la forma valore relativa di una merce (es. la tela) esprime il suo essere valore come una cosa affatto diversa dal suo corpo e dalle sue proprietà (es. come cosa eguale ad abito), tale stessa espressione lascia intuir che nella forma relativa si celi un rapporto sociale. Capita l'inverso per la forma equivalente: essa consiste proprio nel fatto che un corpo di merce, l'abito (questa cosa così com'è e niun'altra), esprima valore; indi possieda per natura forma valore. Ma ciò è vero solo entro il rapporto di valore in cui la merce tela è riferita alla merce abito come equivalente. Ma poiché le proprietà di una cosa non nascono dal suo rapporto con altre (bensì in esso si attuano solo), allora pure l'abito pare posseder per natura la sua forma equivalente, la sua qualità d'immediata scambiabilità, quanto la qualità d'esser pesante o di tener caldo. Ne deriva l'aspetto enigmatico della forma equivalente, che desta la rozza attenzione borghese dell'economista prima che tale forma gli si presenti finita nel denaro. Allora l'economista cerca di dissipare il carattere mistico dell'oro e dell'argento sostituendoli con merci meno abbaglianti, e recitando sempre volentieri il catalogo dell'intero volgo di merci che, a suo tempo, ha recitato la parte dell'equivalente di merci. Egli non sospetta che già la forma semplice di valore, come «20 braccia di tela = 1 abito», offra soluzione all'enigma della forma equivalente» [Capitale I, 1, 3, A, 3].↩
9. Marx usa qui terminologia e concetti hegeliani, che ci riportano fin alle vecchie battaglie giovanili per rovesciare il rapporto tra individuale e universale. Cfr. Capitale I, Poscritto alla seconda edizione. E poi: «Il concreto è concreto perché è sintesi di molte determinazioni, indi unità della molteplicità. Nel pensiero il concreto appare così come processo di sintesi, come risultato anziché punto di partenza, benché sia il punto di partenza effettivo, indi punto di partenza dell'intuizione e della rappresentazione. Con la prima via, la densa rappresentazione è disciolta fino ad astratta determinazione; con la seconda via, le determinazioni astratte conducono alla riproduzione del concreto nel cammino del pensiero. È così che Hegel cadde nell'illusione di concepir il reale come risultato del pensiero che, partendo da sé stesso, si raccoglie e si approfondisce in sé, mentre il metodo di risalir dall'astratto al concreto è solo il modo in cui il pensiero si appropria del concreto, per riprodurlo come una cosa concreta dello spirito. Ma non è certo il modo del processo di generazione del concreto» [Introduzione del '57, 3].↩
10. «Una terza peculiarità della forma equivalente è che il lavoro privato diventi forma del suo contrario, lavoro in forma immediatamente sociale» [Capitale I, 1, 3, A, 3].↩
11. «Per trasformare denaro in capitale, il possessore di denaro deve trovare sul mercato delle merci il lavoratore libero; libero nel doppio senso che disponga della sua forza-lavoro come propria merce in qualità di libera persona, e che non abbia altre merci da vendere: che sia privo e spoglio, libero da tutte le cose occorrenti per realizzare la sua capacità lavorativa» [Capitale I, 4, 3].↩
12. L'argomento del feticismo delle merci è riformulato più ampiamente, come spiegato nel Poscritto alla seconda edizione, in: Capitale I, 1, 3, A (Il carattere di feticcio della merce e il suo segreto).↩
13. «Il prodotto del lavoro è oggetto d'uso in tutti gli stati della società, ma solo in un'epoca storicamente determinata dello svolgimento della società (quella che rappresenta il lavoro speso per una cosa d'uso come sua “oggettiva” qualità, cioè come valore di essa) trasforma il prodotto di lavoro in merce» [Capitale I, 1, 3, A, 4].↩
14. «L'oggettività di valore delle merci differisce dalla signora Quickly nel Re Enrico IV di Shakespeare poiché non si sa dove prenderla. In piena antitesi con la rozza oggettività sensibile dei corpi delle merci, manco un atomo di materia naturale passa nell'oggettività di valore delle merci. Girate e rigirate una singola merce quanto vi pare ma in quanto cosa di valore resterà inafferrabile. Ma ricordando che le merci possiedono oggettività di valore solo in quanto espressioni di un'identica unità sociale (di lavoro umano), onde che la loro oggettività di valore è puramente SOCIALE, allora risulterà ovvio che l'oggettività di valore può appalesarsi solo nel rapporto sociale fra merce e merce» [Capitale I, 1, 3].↩
15. «La forma della generale scambiabilità immediata è una forma antitetica di merce, inseparabile dalla forma di scambiabilità non immediata quanto la positività d'un polo di un magnete dalla negatività dell'altro. Così si può creder di poter al contempo imprimer a tutte le merci il suggello della scambiabilità immediata solo come si può creder di poter far papi tutti i cattolici. Per il piccolo borghese che vede nella produzione della merce il non plus ultra della libertà umana e della indipendenza individuale, sarebbe certo desiderabile d'esser esonerato dagli inconvenienti inerenti a tale forma, specie dalla non immediata scambiabilità delle merci. Il socialismo di Proudhon illustra tale utopia filistea» [Capitale I, 1, 3, C, 2,].↩
16. «Perciò la forma semplice di merce è il germe della forma denaro» [Capitale I, 1, 3, D].↩
Il testo pubblicato nel 1859 di Per la critica dell'economia politica fu una completa riscrittura di un manoscritto originario per le ragioni spiegate nella lettera di Marx a Lassalle nella lettera del 12 novembre 1858.
Del testo originario restano frammenti sparsi su due quaderni, da Marx stesso intitolati Quaderno B' e Quaderno B''.
Nel Quaderno B'', l'inizio della progettata continuazione di Per la critica... (Capitolo terzo. Il capitale) è intitolata da Marx: Quaderno B''II.
Tradotto indirettamente dalla versione in inglese presente sul MIA e trascritto da: Leonardo Maria Battisti, giugno 2018
Essendo risultato della circolazione semplice, il capitale esiste dapprima nella semplice forma di denaro. Ma è svanita l'autonomia oggettiva che lo fissa come tesoro in tale forma di fronte alla circolazione. Nella sua esistenza di denaro (espressione adeguata dell'equivalente generale) è anzi indifferente alla particolarità delle singole merci e può assumere una forma qualsiasi di merce. Non è tale o talaltra merce, ma può trasformarsi in ogni merce, e in ognuna di esse seguita ad esser la stessa grandezza di valore e valore che considera sé stesso scopo ultimo. Il capitale esistente in forma di denaro non si ferma dunque di fronte alla circolazione; bensì deve entrare in essa. Né si perde dentro la circolazione, convertendosi dalla forma di denaro nella forma di merce. Piuttosto la sua esistenza di denaro è solo la sua esistenza di adeguato valore di scambio, che può convertirsi in qualsiasi tipo di merce. In ciascuna merce il capitale resta valore di scambio in sé. Ma il capitale può essere valore di scambio autonomizzato solo essendo autonomizzato contro un terzo, rapportato a un terzo. (La sua esistenza di denaro è l'uno e l'altro: può scambiarsi con qualsiasi merce, e come valore di scambio generale non è legato alla particolare sostanza di alcuna merce; in secondo luogo: resta denaro pure se diviene merce; cioè il materiale in cui esiste non esiste come oggetto per il soddisfacimento di godimento individuale, ma è materializzazione del valore di scambio, che assume tale forma solo per conservarsi e accrescersi). Questo terzo momento non sono le merci. Infatti il capitale è denaro che passa dalla sua forma di denaro in quella di una merce qualsiasi, senza perdersi in essa come oggetto di consumo individuale. Anziché escludere il denaro dall'ambito totale delle merci, ecco che tutte le merci appaiono come altrettante incarnazioni del denaro. La naturale differenza materiale delle merci non esclude affatto che il denaro possa prendere il loro posto, che possa fare di esse il proprio corpo, perché non esclude affatto la determinazione del denaro nella merce. Tutto il mondo oggettivo della ricchezza appare ora come corpo del denaro, come prima lo apparivano oro e argento; e proprio la differenza solo formale fra denaro in forma di denaro e denaro in forma di merce lo rende in grado di assumere egualmente l'una o l'altra forma e di passare dall'una all'altra forma, di passare dalla forma di denaro alla forma di merce. (L'autonomizzazione consiste ora solo in ciò: che il valore di scambio si conserva in sé come valore di scambio, sia esso in forma di denaro o in forma di merce, e si trasforma in merce solo per valorizzare sé stesso).
Il denaro è ora lavoro materializzato, sia che il lavoro materializzato abbia la forma di denaro, sia che abbia quella di una merce particolare. Nessun modo oggettivo di esistenza del lavoro si contrappone al capitale, bensì ogni modo oggettivo di esistenza del lavoro appare come possibile modo di esistenza del capitale, che il capitale può assumere con un mero cambio di forma, passando dalla forma di denaro alla forma di merce. L'unica antitesi al lavoro materializzato [vergegenständlichte] è il lavoro immateriale [ungegenständliche], cioè l'unica antitesi al lavoro oggettivato [objektivierten] è il lavoro soggettivo [subjektive]. Ossia l'antitesi al lavoro passato nel tempo ma esistente nello spazio è data dal lavoro vivente esistente nel tempo. Ma come lavoro esistente nel tempo, come lavoro immateriale (quindi non ancora oggettivato), può esister solo come facoltà, possibilità, abilità, come capacità lavorativa [Arbeitsvermögen]*1 del soggetto vivente. Se la capacità lavorativa vivente è l'unica antitesi al capitale (come lavoro materializzato che resta autonomo in sé), allora l'unico scambio, attraverso cui il denaro diviene capitale, è lo scambio che il possessore del capitale conclude con il possessore della forza-lavoro vivente, cioè con l'operaio.
Il valore di scambio può autonomizzarsi solo di fronte al valore d'uso che gli si contrapponga in quanto valore di scambio. Solo in questo rapporto il valore di scambio può oggettivarsi come tale: può essere posto come tale e fungere come tale. Nel denaro, il valore di scambio doveva assumer tale autonomia astraendo dal valore d'uso, e tale astrazione attiva (il restare in antitesi al valore d'uso) appariva di fatto come l'unico metodo per conservar e accrescer il valore di scambio come tale. Invece ora il valore di scambio nella sua esistenza di valore d'uso (esistenza reale, non formale) deve conservarsi come valore di scambio nel valore d'uso in quanto valore d'uso e prodursi da esso. L'esistenza reale dei valori d'uso è la loro reale negazione, il loro consumo, il loro esser distrutti nel consumo. È così in tale loro negazione reale come valori d'uso, è in tale immanente negazione di sé stessi, che il valore di scambio deve confermarsi come conservantesi contro il valore d'uso, anzi l'esistenza attiva del valore d'uso deve divenir prova del valore di scambio. Non si tratta della negazione per cui poiché il valore di scambio come prezzo è determinazione solamente formale del valore d'uso, in cui questo è idealmente negato ma di fatto in esso appare solo il valore di scambio come determinazione formale provvisoria. Né si tratta del suo fissarsi in oro e argento, dove una sostanza fissa e immobile appare come esistenza pietrificata del valore di scambio. Nel denaro è già posto il fatto che il valore d'uso sia mera materializzazione e realtà del valore di scambio. Ma il denaro è l'evidente esistenza puramente immaginaria della sua astrazione. Ma nella misura in cui il valore d'uso sia determinato come valore d'uso, cioè il consumo della merce come posizione del valore di scambio, come mero mezzo per porlo, allora il valore d'uso della merce diviene di fatto solo avvio del processo del valore di scambio. La negazione reale del valore d'uso, che non è nell'astrarre da esso, bensì è nel suo consumo (non nell'opporsi ad esso), tale sua reale negazione (che è al contempo la sua realizzazione come valore d'uso) deve perciò farsi atto di autoaffermazione, di automanifestazione del valore di scambio. Ma ciò è possibile solo se la merce è consumata dal lavoro e il suo consumo stesso appare come materializzazione del lavoro e quindi come creazione del valore. Per conservarsi e appalesarsi non solo formalmente (come nel denaro), ma nella sua esistenza reale di merce come denaro, il valore di scambio materializzato nel denaro deve appropriarsi del lavoro stesso scambiandosi con esso.
Per il denaro il valore d'uso non è un articolo di consumo in cui in cui esso si perde, bensì solo il valore d'uso in cui esso si conserva e si accresce. Per il denaro in quanto capitale non c'è altro valore d'uso. È proprio questo il suo rapportarsi in quanto di valore di scambio al valore d'uso. L'unico valore d'uso che può formar un'antitesi e un complemento del denaro in quanto capitale è il lavoro, il quale esiste nella forza-lavoro, la quale esiste come soggetto. Il denaro esiste come capitale solo in rapporto al non-capitale [Nichtkapital], alla negazione del capitale: solo in questo rapporto il denaro è capitale. Il non-capitale reale è il lavoro stesso. Per divenir capitale, il primo passo che il denaro deve fare è il suo scambio con la forza-lavoro, per trasformare mediante quest'ultima il consumo di merci (cioè il loro porsi e negarsi come valori d'uso) in una attivazione del valore di scambio.
Lo scambio con cui il denaro diviene capitale non può esser con la merce, bensì solo con la sua precisa antitesi concettuale, con la merce che si trova di fronte ad esso in antitesi concettualmente determinata: cioè col lavoro.
Al valore di scambio in forma di denaro si contrappone il valore di scambio in forma di particolare valore d'uso. Ma tutte le merci particolari, in quanto modi particolari d'esistenza del lavoro materializzato, sono ora espressioni indifferenti del valore di scambio in cui il denaro può convertirsi senza perdersi. Così non è tramite lo scambio con tali merci che il denaro può perder il suo carattere semplice (poiché si può presumere che esso esista indifferentemente nell'una o nell'altra forma). Bensì può perderlo anzitutto tramite lo scambio con l'unica forma di valore d'uso che il denaro stesso non è immediatamente (cioè lavoro immateriale) ma che al contempo è valore d'uso immediato per esso come processo del valore di scambio: cioè, di nuovo, tramite lo scambio col lavoro. Così è solo nello scambio fra denaro e lavoro che il denaro trasformarsi in capitale. Il valore d'uso con cui può scambiarsi il denaro in quanto potenziale capitale può essere solo il valore d'uso da cui nasce, si produce e si accresce il valore di scambio. Ma ciò è solo il lavoro. Il valore di scambio può realizzarsi in quanto tale, solo contrapponendosi al valore d'uso che lo riguarda (non a un valore d'uso qualsiasi). E questo è il lavoro. La forza-lavoro stessa è il valore d'uso, il cui consumo coincide tosto con la materializzazione del lavoro, e dunque con la creazione del valore di scambio. Pel denaro in quanto capitale, la forza-lavoro è il valore d'uso immediato contro cui deve scambiarsi. Nella circolazione semplice, il contenuto del valore d'uso era indifferente, cadeva fuori del rapporto economico formale. Invece qui esso è momento economico essenziale di essa. Poiché il valore di scambio è determinato come conservantesi nello scambio solo dal fatto che si scambia col valore d'uso ad esso contrapposto in base alla sua propria determinazione formale.
La condizione della trasformazione del denaro in capitale è che la forza-lavoro altrui sia merce che il possessore del denaro possa scambiar col denaro. Cioè che nella circolazione la forza-lavoro sia posta in vendita come merce, poiché dentro la circolazione coloro che scambiano stiano di fronte solo come acquirente e venditore. Così la condizione è che il lavoratore metta in vendita la sua forza-lavoro come merce da consumar tramite il suo uso: cioè il lavoratore libero. Cioè la prima condizione è che il lavoratore disponga come libero proprietario della sua forza-lavoro, e si rapporti ad essa come merce; cioè che sia libero proprietario di tale merce. La seconda condizione è che egli non scambi più il suo lavoro nella forma di un'altra merce, di lavoro materializzato, bensì che l'unica merce che abbia da offrir, da vender, sia proprio la sua forza-lavoro vivente, esistente nella sua vivente corporeità; cioè che le condizioni di materializzazione del suo lavoro, le condizioni oggettive di produzione esistano come proprietà altrui, merci che nella circolazione si trovino dall'altra parte, al di là di lui stesso. Il possessore di denaro (ossia il denaro: nel processo economico il possessore è solo personificazione del denaro) trova sul mercato la forza-lavoro come merce, entro i confini della circolazione: questo è il presupposto da cui partiamo noi e da cui parte la società borghese nel suo processo di produzione; ed è evidentemente il risultato di un lungo sviluppo storico, il resumé di molti rivolgimenti economici, e presuppone a sua volta il tramonto di altri modi di produzione (rapporti sociali di produzione) e uno determinato sviluppo delle forze produttive del lavoro sociale. Tale determinato processo storico passato (che ora è presupposto) sarà esposto con più determinatezza in un'altra trattazione del rapporto. Ma tale grado di sviluppo storico della produzione economica (di cui il lavoratore libero è l'esito) è un presupposto per la nascita e ancor più per l'esistenza del capitale come tale. La sua esistenza è il risultato di un lungo processo storico di configurazione economica della società. In tale punto determinato appare evidente come la forma dialettica di rappresentazione sia giusta solo se conosce i propri limiti. Dall'esame della circolazione semplice deriva PER NOI il concetto generale di capitale, poiché nel modo borghese di produzione la circolazione semplice stessa esiste solo come presupposto del capitale e come presupponente il capitale. Il risultato di essa non fa del capitale l'incarnazione di un'idea eterna; ma lo mostra così com'è in realtà, solo come forma necessaria, in cui deve sfociare la produzione fondata sul valore di scambio e sul lavoro creatore del valore di scambio.
È di essenziale importanza tenere fermo questo punto: che il rapporto come rapporto della circolazione semplice (appartenendo ancora del tutto ad essa, tendente a uscir da essa solo per il valore d'uso specifico delle merci scambiate) è solo rapporto di merce e denaro, di equivalenti nella forma di due poli opposti, come appaiono nella circolazione semplice. Nella circolazione, lo scambio fra capitale e lavoro (preso come mero rapporto di circolazione) non è scambio fra denaro e lavoro, ma scambio fra denaro e forza-lavoro vivente. La forza-lavoro è realizzata come valore d'uso solo nell'attività del lavoro stesso, ma al modo in cui il valore d'uso di una bottiglia di vino comprata si realizza nel bere il vino. Il lavoro stesso cade tanto poco nel processo di circolazione semplice quanto il bere. Il vino come potenzialità (dynamei) è bevibile, e comprar vino è appropriazione di una cosa bevibile. Così l'acquisto di forza-lavoro è potere di disposizione sul lavoro. Poiché la forza-lavoro esiste nella vitalità del soggetto e si manifesta solo come sua attività vitale, allora l'acquisto di forza-lavoro, l'appropriazione del titolo sull'uso di essa, durante l'atto dell'uso, pone naturalmente acquirente e venditore in un rapporto diverso da quello del lavoro materializzato, che esiste come oggetto al di là dei produttori. Ciò non pregiudica il rapporto di scambio semplice. È solo la natura specifica del valore d'uso comprato col denaro (cioè il fatto che il suo consumo, il consumo della forza-lavoro è consumo produttivo di valore di scambio, tempo di lavoro materializzante, cioè produzione) – il fatto che la sua esistenza reale come valore d'uso è creazione di valore di scambio) che fa dello scambio fra denaro e lavoro lo specifico scambio D-M-D, in cui il valore di scambio stesso è posto come scopo dello scambio e in cui il valore d'uso comprato è immediatamente valore d'uso per il valore di scambio, cioè valore d'uso produttore di valore.
Non cale che il denaro sia ivi trattato come semplice mezzo di circolazione (mezzo di acquisto) o come mezzo di pagamento. Poiché uno che mi venda ad es. il valore d'uso di 12 ore della sua forza-lavoro (la sua forza-lavoro per 12 ore), me l'ha di fatto venduta solo tostoché abbia lavorato 12 ore (solo alla fine delle 12 ore mi ha fornito la sua forza-lavoro per 12 ore) indi è nella natura di tale rapporto che il denaro appaia ivi come mezzo di pagamento e che compera e vendita non sono realizzate immediatamente e al contempo dalle due parti. Ivi cale solo che il mezzo di pagamento sia l'universale mezzo di pagamento, cioè denaro; onde che il lavoratore non si accosti all'acquirente con uno specifico modo naturale di pagamento, in rapporti diversi dal rapporto di circolazione. Ei trasforma la sua forza-lavoro immediatamente nell'equivalente generale, possedendo il quale stabilisce nella circolazione generale lo stesso rapporto (l'estensione della sua grandezza di valore) che stabilisce chiunque altro; e parimenti rende lo scopo della sua vendita la ricchezza generale (la ricchezza nella sua generale forma sociale e come possibilità di tutti i godimenti).
*1. Marx indica con Arbeitsvermögen (capacità lavorativa) ciò che egli in seguito avrebbe chiamato senz’altro Arbeitskraft (forza-lavoro). Ma nel Capitolo sesto inedito del Capitale. Risultati del processo di produzione immediato (1867) Marx non sempre stabilisce un rapporto d’identità concettuale fra i due termini. Malgrado parli sempre insieme di capacità lavorativa o forza-lavoro, a volte sembra voler operare una distinzione, usando ora l’uno ora l’altro a seconda del momento economico cui si riferisce. Marx scrive: «Una parte del valore d’uso in cui il capitale appare all’interno del processo produttivo è proprio la capacità di lavoro vivente, in quanto però capacità lavorativa di una determinata specificità corrispondente allo specifico valore d’uso del mezzo produttivo, e in quanto capacità lavorativa in atto che si esprime come forza-lavoro utile che rende i mezzi di produzione momenti oggettivi della sua attività, e quindi trasforma l’originaria forma del suo valore d’uso nella forma nuova del prodotto» [Capitolo sesto inedito, 1]. D'altronde, nelle Pagine sparse riferite al "Capitale", Marx afferma: «Il valore di scambio di questa merce [la capacità lavorativa] esiste quindi prima della sua vendita, ma il suo valore d’uso consiste solamente nella successiva estrinsecazione di forza». Ciò sembrerebbe avallare l’ipotesi di un’ulteriore distinzione tra capacità lavorativa e forza-lavoro, collocando la capacità lavorativa piuttosto nella sfera della circolazione, come valore di scambio, e la forza-lavoro, come valore d’uso, piuttosto nel processo produttivo.↩
Ultima modifica 2020.02.12